✏️ In questa edizione di Informapiù si scrive di uffici, knowledge work, architetture di senso, capitale umano vs capitale relazionale, ma soprattutto di presenza, che sia in sede o da remoto.
🎧 La playlist di Informapiù è molto meglio di qualsiasi white/brown/green noise: ogni mese nuovi brani pensati per accompagnarti nella lettura e aiutarti a scivolare tra un task e l’altro. Salva i tuoi preferiti: potrebbero sparire quando meno te lo aspetti.
Prima di cominciare 🗳
🏢 L’ufficio si è rotto e abbiamo perso il libretto delle istruzioni.
A cosa serve oggi l’ufficio? In un recente articolo pubblicato su Harvard Business Review, l’autrice Gretchen Gavett riformula con queste parole (letteralmente: “What is the office for today?”) una delle domande più rilevanti per il futuro di molte imprese e del knowledge work in generale. Una domanda neutra solo in apparenza, ma che, scardinata con gli strumenti della retorica, sembra anticipare una risposta implicita. Può darsi che qualcosa sia cambiato? Chiede, ma in realtà dice. Piuttosto, ci risuona alla stregua di qualcosa tipo: “ma davvero l’ufficio serve ancora a qualcosa oggi? Come fai a non accorgerti che non è più così?”.
🗣️ Curiosità retorica: mai visto un articolo intitolato con una domanda finire poi con una risposta affermativa nella tesi di fondo?
✏️ Compito per casa: trova un solo articolo dal titolo vagamente simile alla struttura “Ha ancora senso parlare di [inserire argomento x] nel [inserire anno a scelta]?”, la cui risposta sia sì e non “dipende” oppure “ assolutamente no”.
Sono queste le famose “domande retoriche”. Seguimi per altri consigli.
L’articolo non mette in discussione l’utilità dell’ufficio in sé, ma ci invita a ridefinirne il ruolo nel presente, un presente che ha disattivato molte certezze pre-pandemiche e riscritto, in profondità, le coordinate funzionali del lavoro. È una domanda che non cerca conferme, ma nuovi criteri di valutazione. Nel pezzo si supera la dicotomia tra remoto e presenza, per analizzare l’ufficio non più come spazio fisico da difendere o abbandonare, ma come infrastruttura sociale e cognitiva, da attivare in quei momenti chiave in cui si apprende, si decide, si costruisce cultura.
Non è una questione di metri quadrati. È una questione di densità relazionale.
E no, non è (solo) una domanda filosofica. È una questione strategica.
Perché oggi, più che chiedersi dove si lavora, bisognerebbe chiedersi quando, come e — soprattutto — con chi.
In una società di consulenza, Sara coordina un team distribuito su tre regioni. Dopo mesi di asincronia e feedback inconcludenti, il gruppo ha istituito una pratica semplice: il “mercoledì decisionale”. Una giornata in presenza ogni sei settimane, senza presentazioni, senza slide. Solo confronto diretto su progetti in stallo, scelte da sbloccare, tensioni da allineare. Nessuno la vive come una “giornata in ufficio”: è una sessione intenzionale, strutturata, utile. E questo la rende sostenibile. Il resto della settimana, ciascuno lavora da dove ha senso lavorare.
C’è stato un tempo in cui l’ufficio era il cuore pulsante di ogni organizzazione. Il luogo dove si timbrava, si faceva pausa e si passava tutto il proprio tempo lavorativo, misurando la produttività a colpi di presenza. Il luogo dove la routine diventava rituale e la scrivania una seconda casa. Poi è arrivato il 2020. E quello che sembrava un punto fermo si è rivelato una costruzione fragile.
È bastata una connessione stabile per smentire decenni di prassi consolidate.
E oggi, cinque anni dopo, non ha più senso discutere di smart working e ritorno in sede come se fossero due immutabili prese di posizione ideologiche. Oltre le polarizzazioni c’è una domanda realmente costruttiva può aiutarci a scacciare via ogni forma di semplificazione: qual è la funzione attuale dell’ufficio nei contesti più disparati? Esistono dei tratti comuni, nonostante la diversità dei contesti organizzativi?
Un interrogativo che continua a produrre risposte tardive, approssimative, se non del tutto inefficaci — forse perché è più semplice misurare la quantità anziché la qualità delle interazioni. O forse perché il lavoro da remoto ha smascherato una verità scomoda: chi lavorava male in ufficio, lavora male anche da casa. E chi ha imparato a lavorare bene altrove, difficilmente tornerà solo per inerzia.
Dopo mesi di smart working, il team marketing di un’agenzia creativa propone tre giorni di rientro fisso in ufficio. L’intenzione è ottima: ricostruire coesione, condividere creatività. Ma qualcosa si inceppa. Nelle postazioni tutti indossano le cuffie, le riunioni sono ancora online e la cucina comune è diventata deposito. Nessuna progettazione degli spazi, nessun disegno delle interazioni. Solo un cambio di coordinate geografiche. Il risultato: un ambiente operativo, ma non cooperativo. Presente, ma non prossimo.
Il vero nodo è che lo spazio di lavoro — quando funziona — non è un contenitore neutro di operazioni. È un’architettura di senso. Plasma identità, alimenta appartenenze, struttura linguaggi e rituali condivisi. Organizza le giornate, modella i pensieri, definisce le posture mentali con cui si affronta il lavoro quotidiano. E quando quello spazio viene meno — o peggio, quando esiste ma non restituisce significato — la frattura non è estetica: è sistemica. Invisibile, ma profonda. Silenziosa, ma strutturale.
Lo abbiamo visto accadere, lo vediamo ogni giorno nelle nostre vite: open space che diventano deserti relazionali, sale riunioni vuote mentre i colleghi si parlano in call o via mail a pochi metri di distanza, giornate in sede identiche a quelle da remoto, ma con il doppio dello stress logistico e metà della concentrazione.
💡 È qui che si innesta il concetto dell’ufficio come strumento: uno spazio da attivare strategicamente nei momenti ad alta densità relazionale e cognitiva. In quest’ottica, l’ufficio smette di essere un perimetro neutro e assume la funzione di tool abilitante. Proprio come si disegna una roadmap, si struttura una retrospettiva o si imposta un funnel, anche la presenza va progettata. In funzione degli obiettivi, non delle abitudini.
Alcuni esempi? L’avvio di un nuovo progetto. Una decisione strategica da condividere. Una fase di revisione creativa. Un momento di onboarding o mentoring. In ognuno di questi casi, il luogo fisico può agire da acceleratore sociale e professionale. Negli altri, rischia solo di generare nuovi record di chilometri percorsi, tempi morti e interazioni svuotate. È proprio su questo crinale che l’equazione “più presenza = più valore” mostra la sua fragilità. L’ufficio non è un generatore automatico di collaborazione. Anzi: senza una cultura intenzionale della prossimità, può diventare un sistema inefficiente. Se i processi restano digitali, le interazioni sono mediate da cuffie e chat, e il confronto è rinviato alla prossima call, il risultato è un paradosso ormai familiare: vicinanza fisica, distanza organizzativa.
Jolene è un personaggio di finzione — la protagonista del romanzo Un caro saluto (ma non ti sopporto più) di Natalie Sue — ma racconta un’esperienza molto reale: quella di una presenza obbligata in contesti relazionalmente sterili. Scrive email impeccabili, ma nasconde post scriptum invisibili, carichi di frustrazione. Fino a quando scopre che ogni gesto, ogni silenzio, ogni scorciatoia emotiva dei suoi colleghi parla di un’organizzazione senza spazio per la vulnerabilità. La storia è paradossale, ma solleva una domanda seria: quante aziende conoscono davvero gli equilibri che lasciano instaurarsi tra una scrivania e l’altra?
Dopo anni passati a ripetere che “bisogna mettere le persone al centro”, forse è il momento di spostare l’obiettivo. Decentrarsi. O decostruire, per dirla con un’altra parola alla moda che dà il titolo all’ultima canzone inserita nella playlist di questo mese. Perché il lavoro, oggi, è già decentrato, destrutturato: negli orari, nelle sedi, nei linguaggi. E continuare a insistere con metafore centripete rischia di risultare non solo anacronistico, ma anche fuorviante. La centralità del capitale umano, da sola, non basta più a spiegare la complessità dei sistemi di lavoro ibridi. Oggi ci serve una nuova lente per superare ogni miopia organizzativa: quella del capitale relazionale. Non ciò che l’individuo porta con sé, ma ciò che si costruisce tra gli individui. Le connessioni, le intese, i loop di feedback, le dinamiche laterali.
È il momento di cambiare visione e vision, andare oltre i “mettiamo le persone al centro”. Meglio dire: “Le mettiamo anche di lato, in diagonale, in cerchio, a gruppi di quattro, in fila per tre col resto di due, purché ci siano connessioni significative”.
Perché non è più questione di presenza. È questione di prossimità. Di senso condiviso. Di progettazione intenzionale delle occasioni in cui lo spazio fisico genera valore.
Se il lavoro è distribuito, le connessioni devono essere orchestrate. Non basta alternare turni di presenza. Serve costruire momenti intenzionali di condivisione. Serve immaginare forme cicliche e progettuali della co-presenza: momenti in cui non conta tanto chi c’è, ma cosa si costruisce insieme.
Fabio ha firmato il contratto online. Ha visto i primi volti in call. Ha letto il codice etico su una piattaforma interna. Poi ha fatto anche due giorni in sede. Ha osservato le pause, i flussi, gli scambi informali. Ha conosciuto la sua buddy. Ha imparato a riconoscere l’umore del team. Oggi lavora prevalentemente da remoto, ma rientra ciclicamente per rigenerare quella mappa implicita. Perché certe competenze si apprendono con l’occhio periferico, non con la condivisione schermo.
È così che i piccoli rituali, gli eventi ad alto ingaggio e la progettazione condivisa della presenza diventano elementi architettonici della cultura del lavoro, non solo strumenti gestionali. All’interno di questo disegno, il ruolo formativo dell’ufficio resta cruciale. Alcune competenze — come la negoziazione informale, il problem solving collaborativo o l’apprendimento intergenerazionale — non si apprendono per trasferimento, ma per immersione. Non vivono nei flussi schedulati delle call, ma si attivano nello spazio condiviso: nell’osservazione implicita, nella partecipazione laterale, nella porosità dei contesti.
Secondo una ricerca condotta da Adobe nel 2023, l’83% dei lavoratori della Gen Z considera fondamentale avere una mentorship sul lavoro, ma solo il 52% dichiara di averne effettivamente una. Un gap che non parla solo di accompagnamento formale, ma di occasioni informali di confronto, guida e contaminazione che spesso si attivano proprio grazie alla co-presenza. E che difficilmente nascono in un thread.
Ma c’è un’altra questione, ancora più urgente: la sicurezza. Progettare spazi di lavoro oggi significa anche assumerne la responsabilità strutturale. I dati INAIL del 2024 segnalano che la maggioranza delle denunce per malattie professionali proviene da settori non industriali. Il 74,7% riguarda il sistema osteo-muscolare, con numerose segnalazioni legate a ergonomia, microclima, manutenzione inadeguata.
L’ufficio, oggi, non può essere solo ispirazionale. Deve essere sicuro. Perché la sicurezza — anche quella che passa da una sedia regolabile, da una scrivania progettata correttamente o da una fonte luminosa adeguata — non è un benefit. È un diritto. E se le imprese non agiscono in questa direzione, le persone lo fanno da sole. Secondo i dati del Ministero del Lavoro, negli ultimi anni le dimissioni volontarie in Italia non sono mai scese sotto la soglia dei di 2 milioni di casi, mantenendo livelli elevati rispetto agli anni pre-pandemici. Non è solo un fenomeno di fuga. È una forma di consapevolezza organizzata. È il sintomo di un bisogno: quello di ambienti che non siano soltanto efficienti, ma anche rispettosi, sostenibili e relazionalmente generativi.
Alla fine, tutto si riduce a questo: non ci serve un ufficio in più. Ci serve un motivo in più per andarci. E quel motivo non può essere lasciato al caso. Va progettato, curato, condiviso. Perché oggi, più che mai, il luogo di lavoro è un’infrastruttura narrativa: racconta chi siamo, cosa ci tiene insieme, e dove stiamo andando.
🎧 Extra: Sei in remote working e ti manca il sound dell’ufficio?
Il canale YouTube Winter Whale ha la soluzione per te: quattro ore di suoni d’ufficio tra tastiere, fotocopiatrici, passi in corridoio, sussurri, rumorini assortiti. I commenti? Un capolavoro sociologico: c’è chi lavora da casa, ma riproduce il rumore di un open space per "favorire la concentrazione"... e c’è persino chi riproduce il rumore d’ufficio “mentre è in ufficio”. Siamo ufficialmente nell’era dell’ufficio immaginario.
Se fai due più due…🧮

Senti questa: open space fantastici e dove trovarli 👩💻

Negli anni ’30, mentre il mondo affrontava la Grande Depressione, in un piccolo angolo del Wisconsin accadeva qualcosa di rivoluzionario: Frank Lloyd Wright progettava il Johnson Wax Administration Building. Più che un semplice headquarter, era un manifesto visionario del futuro del lavoro.
Wright non si limitò a disegnare le pareti: concepì tutto l’ambiente come un organismo unico, progettando anche gli arredi — scrivanie, sedie, persino la disposizione degli spazi — in stretta connessione con l’architettura. La grande workroom, sorretta da colonne a forma di albero (o di fungo) e inondata di luce naturale filtrata da tubi in vetro pyrex, veniva definita un laboratorio sociale, pensato per favorire concentrazione, collaborazione e senso di comunità.
Con la collaborazione della Metal Office Furniture Co., Wright aprì la strada all’idea moderna di contract per uffici, introducendo arredi modulari e su misura, progettati per adattarsi alle nuove dinamiche di lavoro. Nessuno, fino ad allora, aveva osato tanto. Quando l’edificio fu inaugurato nel 1939, la rivista Life gli dedicò uno speciale reportage: nessuno aveva mai visto uno spazio di lavoro così.
💬Chi nasce tondo…
Key-notes📝
🔑Le note di lettura delle nostre key people su questo numero di Informapiù.
Di smart working si è detto (quasi) tutto: flessibilità, work-life balance, nuovi modi di collaborare. Ma dal tuo osservatorio privilegiato, qual è un aspetto concreto di cui si parla poco e che invece oggi fa davvero la differenza nelle scelte delle aziende? C’è qualcosa che spesso viene dato per scontato ma che, nella pratica, si rivela decisivo?
Uno degli aspetti di cui si parla poco, ma che secondo me oggi fa davvero la differenza nello smart working è la qualità della comunicazione informale. Spesso si dà per scontato che le relazioni tra colleghi si adattino facilmente ai canali digitali, ma la verità è che la mancanza di interazioni spontanee può ridurre il senso di appartenenza e rallentare la collaborazione. Le aziende che investono in momenti strutturati ma informali, come “coffee chat” virtuali o spazi digitali per lo scambio libero, riescono a mantenere vivo il capitale sociale interno. In un contesto dove la tecnologia non è più un ostacolo, è proprio la cura delle relazioni a fare la differenza.
Alberto Canale | Regional Sales Manager Area Toscana @Lavoropiù
Nel momento in cui attrarre e trattenere le persone passa sempre più spesso da leve non materiali, quanto incidono oggi la qualità delle relazioni, la coesione del team e la cultura interna nella fidelizzazione del personale? Dal tuo osservatorio, stai notando un cambio di priorità o nuove sensibilità da parte delle risorse in questi ambiti?
Cosa spinge oggi una risorsa ad accettare o declinare una proposta lavorativa? I driver motivazionali restano personali e difficilmente standardizzabili, ma si nota una crescente attenzione a fattori che fino a poco tempo fa erano marginali. Oltre a mansione, retribuzione e contratto, incidono sempre di più il work-life balance, l’accesso allo smart working, la flessibilità oraria, le opportunità di crescita professionale e personale attraverso percorsi formativi, workshop e momenti di condivisione. Elementi come pari opportunità, inclusione, attenzione alla genitorialità e sostenibilità aziendale entrano oggi nella lista dei parametri valutati dalle risorse. Il risultato? La mappa dei pro e contro si è popolata di nuovi indicatori che il mondo HR non può più permettersi di trascurare.
Simona Zaffagnini | Area Manager Romagna @Lavoropiù
✏️ Informapiù è una newsletter che raggiunge oltre 3.000 persone interessate ai temi delle risorse umane, del lavoro e dell’innovazione. Il contributo della community è fondamentale per favorire lo scambio di know-how e la circolazione di punti di vista e best practice. Usa la sezione commenti per aggiungere le tue #communitynotes?
Per la categoria special✨
🔬Il punto di vista delle nostre divisioni specialistiche.
Con oltre 2.100 espositori e un’affluenza sempre più internazionale, il Salone del Mobile si conferma un moltiplicatore globale di capitale relazionale. Quali sono le esigenze più ricorrenti delle imprese del settore design e arredo oggi, e quali leve reputi più efficaci per attrarre e trattenere talenti in questo comparto, tra creatività e industria?
Le aziende cercano oggi figure tecniche specializzate, motivate a partecipare a progetti complessi, spesso internazionali. I profili più difficili da reperire sono falegnami, tappezzieri, verniciatori e operai specializzati. Serve un’attrazione mirata che valorizzi il ruolo e l’unicità del lavoro artigianale. Il design personalizzato richiede passione e competenze tecniche, rendendo essenziale investire nella formazione continua, offrire salari competitivi e un reale equilibrio tra vita e lavoro. È fondamentale rendere attrattivo non solo il prodotto, ma anche chi lo realizza, trasmettendo valori aziendali forti. Le imprese cercano risorse capaci di trasformare questi valori in prodotti unici, con senso di appartenenza e voglia di crescere insieme al team.
Alberto Marino | Responsabile Divisioni Fashionpiù e Facilitypiù @Lavoropiù
Extra-time⏱
💡Un tecnicismo che può tornarti utile di questi tempi.
Un team di lavoro efficace nasce anche da spazi progettati per facilitare collaborazione, concentrazione e confronto. Quali soluzioni progettuali e organizzative ritieni oggi più efficaci per far sì che gli ambienti fisici supportino davvero il lavoro di squadra nei momenti chiave?
Post Covid, le modalità di lavoro sono cambiate e anche il workspace si è evoluto per essere più smart, flessibile e sostenibile. Oltre al rispetto delle normative, è importante progettare soluzioni su misura che riflettano esigenze, identità e valori aziendali. Nel nostro caso, le persone si spostano sempre più tra diverse filiali, riducendo l'uso delle postazioni fisse. Pertanto, il nostro approccio punta a mettere al centro i team, facilitandone crescita e collaborazione attraverso spazi che stimolino confronto e concentrazione. Open space, sale riunioni, call room e aree break diventano essenziali per favorire scambi di idee in ambienti rilassati. Credo che il workspace non debba essere visto solo come un edificio, ma come cultura e motore vivo di connessioni, innovazione e fiducia.
Valeria Barzan | Responsabile Ufficio Affari Generali @Lavoropiù
🔗 Ieri, oggi e domani: link dai tempi che cambiano.
🗿 ieri: l’evoluzione del concetto di ufficio negli ultimi 70 anni.
⚡️ oggi: rifatti gli occhi con 64 idee di stile per il tuo home office.
🔮 domani: come saranno gli HQ corporate del futuro?
💅 Nei ritagli di tempo, abbiamo anche…
🤝 stretto una partnership triennale molto importante
🏆 conquistato l’ennesimo trofeo come Sponsor di Imoco Volley Conegliano
❤️ partecipato ad un evento di recruiting che ci sta a cuore
🚀 preso parte a un forum d’innovazione
⛹️♀️ supportato un torneo internazionale di basket femminile
Segui Lavoropiù anche su LinkedIn, Instagram, Facebook e TikTok.